Attilio Momigliano (1960)

Attilio Momigliano, «Il Ponte», a. XVI, n. 6, Firenze, giugno 1960, pp. 886-904; poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia, cit. È il testo lievemente modificato della commemorazione tenuta nell’Aula Magna dell’Università di Firenze l’11 maggio 1960.

ATTILIO MOMIGLIANO

Mentre in questi giorni venivo preparando la commemorazione di Attilio Momigliano, che la Facoltà di Lettere ha voluto affidare a me come suo scolaro e successore nella cattedra di letteratura italiana (ma che io ho intesa anche come rinnovato omaggio a lui di tanti suoi scolari ed amici, al di là di ogni preciso confine accademico), la mia memoria è stata anzitutto sollecitata e occupata dalla viva figura dell’uomo, dai densi ricordi che risvegliavano in me il fascino e il rimpianto della sua persona aristocratica e semplice, delicata ed energica.

Quell’uomo timido e schivo, sobrio e riservato fino all’apparente freddezza (e interiormente invece caldo e vibrante di affetti, di simpatia umana e di una vita di sentimenti, di idee, di fantasia fervida e incessante), fu anzitutto, per quanti lo conobbero e lo capirono, un esempio concreto di umanità, di misura, di schiettezza. Che era poi la parola piú alta della sua lode agli uomini che piú amava e il fondo stesso della sua originalità personale e critica, dell’assoluta coerenza fra ciò che sentiva, pensava e diceva, fra ciò che con tanta originale finezza avvertiva nella lettura dei suoi autori e ciò che portava ad elaborato e controllato giudizio. E parrà forse piccola o mediocre virtú a chi ricerca ed ammira negli uomini e negli studiosi la complicatezza preziosa o l’abilità diplomatica degli atteggiamenti e delle idee, ma essa, in una prospettiva piú seria ed assoluta, ben si rivela come il fondamento necessario di ogni vero valore e, quando sia associata, come in Momigliano ben era, ad autentico vigore di ingegno, come la disposizione umana e intellettuale piú atta a rinnovare vita e cultura, a combattere la prima origine di ogni falsità morale, artistica, culturale e critica.

Momigliano amava ed esercitava la schiettezza come valore, e come valore sentiva la bontà, la semplicità, la purezza, né poteva ammettere la validità di una cultura che non sia promotrice di un’omogenea altezza spirituale, pur sapendo che, a diversi gradi di gravità, ma in un comune nesso di errore, la vita presenta un frequente disaccordo fra cultura e sensibilità morale. Come egli dice nel suo Manzoni rivelandoci insieme alcuni termini saldi della sua disillusa esperienza e della sua fede incrollabile nei valori morali: «La maggior parte degli uomini passa su questa terra come se ci dovesse rimanere in eterno, crudele e cieca anche quando la coltura della mente la dovrebbe illuminare. Pochi sono capaci di una umiltà semplice, pronta a tutte le prove, sicura che le sconfitte delle anime pure sono apparenti ed effimere».

Privo di ogni boria e infatuazione professorale e accademica, alieno (perché fermo in una valutazione tutta interna del suo lavoro e dei suoi risultati) da ogni attenzione alle proprie fortune mondane e da ogni politica e polemica personalistica, sino a dare l’errata impressione di una tepidezza per le proprie idee e il proprio valore, Momigliano fu, per quanti lo conobbero e lo compresero, esemplare immagine della serietà e della moralità della cultura e del magistero scolastico e critico, come esercizio non solo severamente tecnico, ma tale da richiedere l’alimento di tutta una vita, come fu la sua, animata da un’autentica passione per l’arte, nobilitata da una sensibilità morale impiegata in ogni occasione, non incrinata mai dalle piccole bassezze dei pettegolezzi, dei rancori, delle invidie non infrequenti anche nei rapporti fra gli studiosi: opache debolezze queste, che sembravano, anche quando piú direttamente lo colpivano, passar su di lui senza appannare la limpida e severa chiarezza del suo mondo interiore, cosí profondamente originale e originalmente posseduto da rivelarsi poi in ogni moto e riflesso del suo volto e del suo sguardo, in ogni parola che pronunciasse con quel suo tono cosí poco colorito e sommesso, con quella sua dizione lenta, meditata, lievemente cadenzata e antiretorica che, nella lettura dei versi, finí a poco a poco per assimilarsi, per i suoi scolari, ad una ideale lettura critica e per rivelar loro un primo segno della disposizione di profondo rispetto del critico verso l’intimità e le ragioni interne dei testi poetici.

Cosí molti di noi, suoi scolari pisani (ma quanto qui dico val certo per tanti suoi scolari catanesi e fiorentini), lo ricordano quale egli ci appariva nelle lezioni e nelle esercitazioni, durante il periodo piú luminoso e costante della sua vita (a Pisa era giunto, dopo un breve periodo universitario a Catania e una lunga attività di insegnante liceale in varie città italiane, nel ’25 e vi rimase fino al ’34) quando, in una quiete nutrita di amicizie e di laboriosità intensa, egli visse anche un felicissimo accordo fra il suo lavoro di studioso e l’insegnamento, un incontro eccezionalmente propizio con gli scolari che, italianisti o studiosi di altre discipline (per ricordarne solo alcuni fra i moltissimi: Aldo Capitini e Claudio Baglietto, Carlo Ludovico Ragghianti e Claudio Varese, Raffaele Spongano e Vittore Branca, Alessandro Perosa e Delio Cantimori, Vittorio Enzo Alfieri, Carlo Cordié, Giuseppe Dessí, Guido Di Pino, Sergio Donadoni, Giovanni Getto, Ettore Bonora, Giorgio Radetti, Enrico Alpino, Eugenio Luporini), riconoscevano concordemente in lui l’autenticità del gusto e dell’iniziativa critica, la serietà profonda della preparazione, la validità e lo stimolo di un insegnamento, formativo anche per la sua estrema liberalità nel rapporto con gli allievi.

Qualità quest’ultima corrispondente ad un senso profondo della originalità personale, ad un rispetto per l’autonomia degli allievi che ci colpiva profondamente e positivamente come una qualità essenziale ad un maestro che sapeva offrire preziosi elementi di educazione critica fortemente personale senza con ciò trasformarsi in un prepotente dominatore e creatore di seguaci e imitatori, di ripetitori delle proprie formule e magari dei propri modi di linguaggio. Ciò che, ben lungi dall’indicare in lui scetticismo nella propria funzione educativa, era segno di un’intelligenza superiore e di una superiore comprensione dei suoi doveri educativi e della fecondità del dialogo e degli incontri fra la personalità del maestro e quelle degli scolari.

Ed è per questo che forse i piú veri ed amati scolari di Momigliano sono stati poi i piú lontani da una semplice applicazione dei suoi temi critici e che il «culto» di Momigliano, tanto giustamente da Emilio Cecchi rivelato vivissimo in tanti suoi vecchi allievi, può ben persistere anche in chi si è piú fortemente distaccato dalle forme piú personali o dalla «maniera» piú divulgabile della sua critica e ha fruito nella propria formazione anche di altri insegnamenti (si pensi per alcuni di noi, scolari pisani, alla feconda integrazione dell’insegnamento di Momigliano con quello di Luigi Russo che a lui era immediatamente succeduto nel ’34), ma ha pur potuto riportare da lui elementi incancellabili di educazione di gusto e di lettura, un senso profondo e decisivo della serietà e impegnatività personale dell’attività critica, della centralità della poesia negli studi storico-letterari e del rapporto irreversibile fra gli strumenti di indagine e le ragioni critiche per cui quelli si escogitano e si adoperano.

Mentre quel «culto» è ben comprensibile nel nostro riconoscimento dell’assoluta coincidenza fra l’altezza del critico e quella dell’insegnante e dell’uomo, della profonda armonia di tutte le forze interiori che sorreggevano la sua critica e che trovarono modo di manifestarsi anche piú energicamente quando la vicenda di Momigliano, dai toni felici del periodo pisano e di quello brevissimo dei primi anni fiorentini (dalla fine del ’34 al ’38: troppo breve perché egli potesse cogliere il pieno frutto della sua nuova scuola e potesse accordarne la piena soddisfazione con quella delle profonde amicizie che pur qui si meritò: Maggini, Benedetto, Pancrazi, Cappuccio, per citare solo quelli che gli furono piú vicini allora e poi, insieme a vecchi scolari pisani come Spongano, Branca e Di Pino), trascorse a quelli cupi e tormentosi delle sventure da cui la sua vita non poté piú interamente riscattarsi.

Da quando una dittatura malvagia ed inetta, incapace persino di inventività tragica e di temi suoi non farseschi, accettò dalla disumana follia dei nazisti le persecuzioni razziali, e il «piemontese» Momigliano, l’interprete congeniale di tanta parte della nostra letteratura, fu dichiarato straniero, cacciato da questa cattedra, ridotto a dover scrivere sotto falso nome (proibito ed abolito il suo persin dalle citazioni dei suoi scritti), reso impotente a rispondere a qualsiasi offesa fosse rivolta pubblicamente a lui e alla sua opera, costretto, durante l’occupazione tedesca, a ramingare e a nascondersi con la moglie malata e sconvolta dal terrore dell’identificazione e del campo di sterminio. A quando, perduta la compagna amatissima, la cui lunga malattia e la nervosa irrequietezza avevano messo a dura prova la sua stessa possibilità di lavoro, il suo gracile corpo fu invaso da un morbo inesorabile con cui la natura sembrava quasi proseguire e imitare le persecuzioni degli uomini.

Ebbene, chi è stato vicino a Momigliano negli anni delle persecuzioni e della malattia fino alla morte (avvenuta il 5 aprile del 1952 qui in Firenze, dove era tornato ad insegnare dopo la fine della guerra) ben sa quanto in quegli anni di prova durissima siano stati in lui evidenti e costanti la virile sopportazione della sventura e del tormento fisico, la mai diminuita attenzione alla vita degli altri, la forza della sua passione per la poesia e per la critica, il tono intimo e poetico della sua vita e del suo stesso avvicinamento alla morte.

Vicino ormai alla morte, di cui, malgrado le pietose menzogne dei parenti e degli amici, era intimamente consapevole, egli passò alcune delle sue ultime giornate a ripercorrere con la memoria i tempi della sua vita, le occasioni e i paesaggi dei suoi affetti e della sua esperienza vitale, le ragioni interne e le occasioni e le ispirazioni piú personali dei suoi studi. Non ai libri, all’opera, ai successi, alle vicende onorifiche egli ripensava, ma alla sua esperienza di uomo, alle gioie e ai dolori, ai volti e alle voci delle persone amate, al senso della vita e della morte a cui egli, cosí poco «libresco», aveva sempre attinto direttamente il primo alimento di una sua vita poetica e di una sua personale meditazione, che sotto la sua pagina critica fan sempre avvertire una partecipazione esperta (e allargata dall’integrazione della fantasia e della sensibilità) al mondo sentimentale e morale, alle forme di Erlebnis dei suoi autori, e ai nessi, personalmente intuiti, fra esperienza vissuta e poesia.

Personale meditazione, e sentimento ed esperienza di vita cosí complessa, sinuosa e ramificata sottilmente che qui non è possibile se non indicarne alcuni elementi costanti piú vistosi, non dissociabili del resto concretamente da aspetti della sua formazione primonovecentesca, fra poussées spiritualistiche e residui razionalistici e positivistici (con certe vicinanze a Donadoni, a Graf, ad aspetti vociani ed elementi di cultura francese, anche di fine secolo, conoscenze gozzaniane e pascoliane, eredità carducciane irrobustite da elementi crociani e piú profonde lezioni classico-romantiche) e con una piú debole assimilazione di elementi storicistici e dialettici (e in sede di gusto e di poetica con una minore apertura alla lezione del postsimbolismo). Anzitutto una tensione alla serenità, ad una visione armonica della vita pacificata e illuminata da valori catartici e consolatori, piú centralmente risolta nell’immagine alta della grande e vera poesia che allude e anticipa una luce e una dimensione piú assoluta ed opposta alla frammentarietà tumultuosa e logorante del tempo («la poesia è per me un rifugio, una sfera di serenità e di silenzio», scriveva a me nel ’34 rispondendo ad un mio articolo di commiato a nome dei suoi scolari pisani); e insieme un fondo di amarezza di esperienza e sin di pessimismo doloroso che lo portava a volte a preferirsi leopardiano piuttosto che manzoniano, a sentirsi oppresso da leggi ferree e deterministiche, a meditare dolorosamente sulla radicale presenza del male nella vita e nella storia degli uomini («Certo Hitler è stato l’anticristo», scriveva al Gallico nel 1945, «ma non cade foglia che Dio non voglia e questo mi spaventa»), a sentire biblicamente e romanticamente la caducità e la sofferenza dell’esistenza, a rimanere dolente e impersuaso di fronte all’annullamento individuale nella morte: «via dagli affetti, via dalle memorie, tenui ombre lievi dilegueremo», come amava ripetere col Carducci, mentre insieme avvertiva e viveva l’appello virile di una concezione vitale positiva e storica, la nobiltà delle passioni e del sacrificio per le idee, il fascino delle risorse poetiche della realtà, la gioia della fruizione di paesaggi e beni mondani (e sapeva cosí avvertire non solo la divina malinconia, ma la divina letizia che pure apre il regno della poesia) e il fascino invece dei gorghi drammatici, delle zone oscure e inquiete del subconscio.

Certo con pericoli a volte – nel piú immediato contatto di sue componenti personali, piú colorate da modi tipici della sua formazione, con mondi poetico-spirituali a quella piú pertinenti – di concessioni di eccessivo credito a piú facili serenità, a drammi spirituali meno profondi ed autentici: come nel caso assai sintomatico del Fogazzaro, autore che va ben considerato nella crescente divaricazione fra il fondo piú intenso di Momigliano e certi aspetti della sua sentimentalità e sensibilità che si facevano piú pericolosamente vivi nel rapporto con la letteratura contemporanea. Anche se ciò gli permetteva di avvertire, fra i primissimi, sotto la pagina d’arte di Cecchi, il suo fondo piú inquieto di forze anticlassiche, il mistero del suo averno «etrusco», e se il contatto con i mondi piú robusti dei classici (in un ricambio fra esperienza propria ed esperienza da questi mutuata ben significativo per capire sia aspetti dello sviluppo di Momigliano sia la natura complessa del suo stesso mondo spirituale e sentimentale capace di alimentarsi anche nella lettura e nell’esercizio critico) portava in azione le sue costanti interiori piú profonde, i suoi motivi personali piú sicuri e intensi, li depurava del loro margine piú morbido, di certo piú vago alone platonico e spiritualistico e di certe tonalità crepuscolari o di certe venature un po’ sospirose di escluso dalle certezze consolatrici di fedi trascendenti e confessionali a cui poi reagiva piú centralmente il suo fondamentale e mai smentito laicismo.

Comunque una meditazione e un’esperienza personale di vita, di sentimenti, di Weltanschauungen, che ben lo diversifica da studiosi di letteratura che sembrano avere appreso l’esistenza di tutto ciò solo dai libri che fanno oggetto del loro lavoro.

Per questo egli (che anche in sede di dichiarazioni sulla critica si era mostrato profondamente persuaso del principio – non importa poi se formulato con qualche improprietà dualistica – che «l’esame della fantasia di un poeta non basta a svelare il segreto della sua arte; tutto il suo spirito vi confluisce e la fantasia lo regola e lo illumina») poté tanto meglio sostenere la sua vastissima esplorazione di tante zone e di tanti autori della nostra letteratura con una disposizione personale a vivere e rivivere problemi spirituali, tensioni ai valori, situazioni di dramma e di felicità, con una ricca gamma di consonanze e di adesioni, che gli permisero di dirigere, da un interno accordo con le radici interiori di un mondo poetico, le piú sottili impressioni dei piú minuti aspetti espressivi di questo ad una sua intera, organica ricostruzione.

Ché, come egli affermava nelle interessantissime dichiarazioni con cui partecipò nel 1916 sulla «Rassegna» ad una discussione sulla cultura necessaria al critico, questi potrà davvero ambire a intendere i poeti che studia se oltre a possedere una vasta conoscenza di poeti di ogni tempo, un’esperienza di pensiero e di gusto, una preparazione storica generale e particolare, «sopra tutto avrà lui stesso vissuto una vita ricca di preoccupazioni sentimentali, mobile e pensosa. Poiché anche questo ultimo elemento è necessario e anche questa è cultura». Ed è appunto il saldo possesso di ciò che egli cosí significativamente chiamava pure «cultura» la prima base della sua disposizione a comprendere i poeti, di cui contemporaneamente la sua sensibilità finissima e il suo gusto penetrante e aderente coglievano, fino alla sfumatura e alla vibrazione piú lieve, i toni e le risonanze della parola poetica, con una ricchezza di impressioni dirette di lettura che (se a volte possono sembrare bisognose di una maggiore precisazione tecnica e storica della parola e del testo) vanno pur considerate, come esse sono, non solo un modo peculiare del Momigliano (assai collegato del resto storicamente all’urgenza della critica primonovecentesca di assoluta autenticità e immediatezza del contatto critico con la poesia), ma come un’altra essenziale e perenne sostanza del critico, se, per citare una centrale riflessione del Dewey, «la critica artistica è sempre determinata dalla qualità della percezione di prima mano; l’ottusità della percezione non può mai essere compensata da nessuna somma di cognizioni, per quanto estesa, né dalla guida di nessuna teoria astratta, per quanto corretta».

Vi erano in lui insomma le prime condizioni essenziali a sorreggere la vocazione del critico: che esso viva in una tensione personale alla poesia (né importa evidentemente che poi sperimenti di fatto l’attività poetica in proprio; anche se negli anni giovanili Momigliano ebbe ambizioni poetiche e tentò poesie di indubbia sensibilità quali ne possiede ancora il suo fedelissimo amico Giuseppe Gallico), che esso abbia spontaneità di impressioni dirette ed autentiche e personale esperienza di vita, e possa cosí intendere e godere (per dirla con Eliot) le creazioni artistiche, ma insieme intendere e soffrire le loro ragioni spirituali e vitali.

Mentre poi questa larga e autentica disposizione a rivivere tante diverse direzioni di mondi poetici e a coglierne impressioni dirette di toni e modi espressivi non riduceva le possibilità critiche di Momigliano (anche se centralmente attive e sicure con varia tensione e forza nelle diverse fasi della sua storia critica) ad una semplice descrittiva o rievocazione, priva di giudizio e di definizione di valore, incapace di precisarsi in tesi critiche decise. Ché viceversa l’abito e la vocazione al giudizio e alla definizione erano in lui fortissime e se ne dovrà anzi sottolineare anche l’energico coraggio rinnovatore («coraggiosissimo sul lavoro» lo disse giustamente Cecchi), il fermo rifiuto di compromessi e di comode ambiguità, l’assoluta mancanza di timidezza anche di fronte a compatti fronti critici e a sanzioni autorevoli e tradizionali, la sua intima necessità di impegnarsi sempre in prima persona, la responsabilità di iniziativa critica, mai surrogata da una mediazione abile di giudizi altrui.

E questi venivano da lui ben considerati e concretamente usufruiti (come la storia della critica era spesso oggetto delle sue esercitazioni universitarie e argomento anche di tesi dei suoi allievi) e spesso da questi fu condotto e stimolato a rivedere precedenti sue valutazioni (il caso della malinconia del Poliziano o il caso tormentato e complesso del Verga), ma sempre in una interna ripresa del proprio esame; non mai per accettazione passiva e rinuncia alla propria decisiva responsabilità.

Proprio queste ultime considerazioni non devono d’altra parte indurci ad una rappresentazione di Momigliano solo come un gusto, un istinto, una natura senza storia di svolgimento interno e di educazione e di discussione e di contatti fecondi col proprio tempo critico e culturale, entro cui invece tanto meglio si comprendono i modi in cui la sua forza personale si configurò e concretamente si espresse ed operò fin dalle sue prime prove, dal suo noviziato cosí interessante a indicarci il rapporto vivo e valido in lui fra educazione e vocazione personale, fra le tendenze originali e le offerte usufruite del gusto e della cultura del primo Novecento.

Educato (all’Università di Torino e poi qui a Firenze, all’Istituto di Studi superiori, dove fu perfezionando nel 1906-1907 con il Mazzoni e il Parodi) nel clima del metodo storico, mentre da questo riportava, piú di quanto spesso non sembri, l’abito alla preparazione coscienziosa (magari celata e presupposta sotto il testo critico dal gusto saggistico dello scrittore e dalla sua tensione alla preminenza dell’indagine di poesia, ma non certo assente o scartata dilettantescamente), egli prestissimo venne attuando una singolare opera di svincolamento della sua vocazione critica e della sua ansia di interpretazione e valutazione della poesia, in cui concretamente utilizzava elementi del gusto e della poetica primonovecentesca (fra estetismo e psicologismo positivistico), in parte presenti nelle spinte piú irrequiete del suo maestro Arturo Graf, per superare il piano documentario e cronachistico della critica erudita e realizzare un primo contatto con i mondi poetici. Magari in forme ancor ben lontane dalla misura e sicurezza della maturità. Si notino cosí certe dichiarazioni sul «buon rimedio» rappresentato «per le anime stanche» dalla frequentazione del fresco e lieto mondo goldoniano, o certe equivalenze pittoriche poco controllate, come quella fra la Madonna jacoponica e l’iconografia del Perugino, o la schematizzazione rigida del riso e della poesia del riso nel volume sul Pulci e la stessa adozione in quello di un ritmo espositivo «piacevole» e scherzoso, fra mimesi di modi espressivi dell’autore studiato e volontà di una specie di narrativa critica antipedantesca e antiaccademica.

Ma anche queste forme, con cui Momigliano ben rivela la viva storicità della sua prima formazione, il suo rapporto con aspetti e tendenze del clima di quegli anni (ancora poco permeato dalla lezione crociana), avviavano lo sviluppo di alcune caratteristiche tendenze di Momigliano che successivamente verranno meglio chiarendo la loro peculiarità e la piú sicura funzione critica: tendenza all’equivalenza figurativa, e poi musicale, come mezzo di evidenziamento della pienezza rappresentativa dell’immagine poetica e della sua natura estetica; esigenza del critico-scrittore di una nuova forma saggistica e di una critica veramente scritta, in cui l’impegno nel linguaggio è sentito come essenziale alla critica (che per Momigliano era anche «una forma di arte colta» e accomunava cosí piú intimamente critica e poesia); importanza dell’indagine e ricostruzione psicologica come momento di intrinseco impadronimento da parte del critico (su di un convergere di stimoli desanctisiani e saintebeuviani) del mondo sentimentale dell’opera d’arte, che pur non confonde (se non in momenti di piú debole ispirazione centrale) il disegno psicologico interno e funzionale all’espressione poetica con un puro psicologismo contenutistico e autobiografico cosí acerbamente condannato da Momigliano in tanta letteratura romantica inferiore: e che comunque è pur da intendere come una delle forme di concretezza della critica momiglianesca e della sua intrinseca reazione a esami puramente formalistici.

Mentre in quei modi immaturi ed entro quei margini storici poteva esprimersi la forza centrale di una tensione critica sempre piú tenacemente volta alla conoscenza interna della poesia, al superamento della sua considerazione documentaria ed allotria. Tensione critica con cui Momigliano ben mostra di appartenere personalmente e storicamente a quella grande generazione di critici (attiva già nel primo ventennio del secolo) che, con varia e a volte diversissima caratterizzazione personale – da Croce a Serra, da Cecchi a Donadoni, da De Robertis a Pancrazi, da Russo a Flora –, strenuamente si applicò a far valere le ragioni della poesia, a interpretarla e individuarla.

Come fece appunto Momigliano già nei saggi giovanili sul Pulci, sul Goldoni, sul Porta (che è poi, insieme al Foscolo di Donadoni, la prima monografia critico-estetica della grande epoca delle monografie critiche) o in quello stesso saggio Sull’Innominato (del ’13) in cui, per la storia dello sviluppo interno di Momigliano, dovrà considerarsi, piú che l’erompere di un suo nativo romanticismo (o una rivincita di questo contro gli abbandoni al fascino di mondi poetici piú lieti: Momigliano, come ho detto, sentí congenialmente la poesia comica e l’appartenenza del comico al regno della poesia), un approfondimento di zone unitarie «fantastico-spirituali», la possibilità, per questo critico cosí poco casuale e intimamente necessitato nel suo svolgimento, di risalire – attraverso questa esuberante e tormentosa esplorazione di un mondo drammatico dove coscienza e fantasia strettamente collaborano, e l’arte lo illumina e rasserena – alla rivelazione, per lui essenziale, dei rapporti fra drammaticità e serenità, fra conquista nell’arte di una dimensione catartica e superiore e l’impegno morale, spirituale, intellettuale, culturale di tutta la personalità che nell’arte si realizza.

Nasce cosí da questa cresciuta tensione e dalla contemporanea meditazione, del 1916, sulla critica, come attività che impegna tutte le risorse umane, culturali, estetiche del critico e dal sentimento profondo dell’inseparabile nesso che lega il valore poetico nella sua totale novità e la sua genesi radicale nella intera personalità del poeta, la grande monografia manzoniana (1915-1918), con la quale Momigliano offriva una nuovissima immagine critica del poeta Manzoni e proponeva insieme un alto esempio (anche metodologicamente interessantissimo) di monografia critico-estetica come storia di una personalità e della sua realizzazione di un intero mondo morale e culturale, in una forma concreta e sensibile di distinzione e unità che par riprendere alcune fondamentali istanze desanctisiane e comunque appar istintivamente piú vicina al momento crociano della circolarità dello spirito che non a quello di poesia e non poesia.

Sull’appoggio di questa prova che consolidava e irrobustiva tutte le sue qualità critiche (e il suo stesso mondo interiore), che precisava le sue parole tematiche piú vere (le quali poi centralmente sorreggono le sue colorature piú sfumate e suggestive entro un’opera interamente fusa anche come scrittura), che offriva al critico la sicurezza della propria capacità di interpretare integralmente la grande poesia (e una poesia romantico-classica che centralmente lo portava a rompere i margini piú estetizzanti della sua prima formazione), Momigliano poté piú liberamente muoversi in un piú vario esercizio critico, in un’alacre e fervida attività di molteplici incontri ed esperienze nel campo della letteratura del passato e del presente, con nuove forme di impostazione saggistica e critica.

Fra il taglio breve e l’impegno piú immediato del saggio di terza pagina (con cui egli realizzava la sua necessità di intervento anche nella letteratura contemporanea e rinsaldava, nelle forme dell’elzeviro, la sua convinzione che la critica è sempre comunicazione e quindi anche nella sua scrittura rafforzava l’antipatia nativa per ogni cifra iniziatica e per ogni pesantezza accademica) e l’originalissima impostazione del commento, da lui cosí profondamente rinnovato e portato – con una nuova forma della sua collaborazione alle esigenze critiche della propria epoca e all’educazione di gusto della generazione formatasi fra le due guerre – a far vivere la poesia del passato in una piú diretta forma di accostamento di lettura, nella illuminazione delle sue pieghe anche piú recondite, dei suoi motivi meno evidenti, della sua piú particolare espressione.

E cosí, mentre realizzava una spinta ben sua – e il commento ha un suo forte significato nella dinamica interna di Momigliano, nel ricambio e nel reciproco appoggio delle sue esperienze – ad una acquisizione piú diretta della realtà poetica, e vi spiegava le risorse preziose della sua sensibilità e del suo gusto, con una duttilità e capacità di adesione originalissime e sempre fresche ed autentiche, interveniva di fatto nei problemi critici delle opere da lui commentate impostando ed aprendo veri e propri temi critici, interpretazioni centrali che avevano il singolare pregio di nascere entro la sollecitazione di un esame diretto e particolare, in una vivacissima e pur meditata ripresa dei problemi critici entro una piú immediata disposizione e prospettiva di contatto critico.

Perciò non solo le opere commentate (nel numeroso gruppo di commenti fra il ’21 e il ’25) furono debitrici a Momigliano di una nuova vita nel gusto e nella comprensione del critico e dei suoi lettori (e tutte ne uscirono rinnovate ed aperte a nuova attenzione non scolastica e non convenzionale), ma anche di una nuova vita dal piú preciso punto di vista del problema critico.

Si pensi, per stare solo agli interventi piú originali e rinnovatori (interventi nel vivo di grossi problemi e in momenti decisivi), al commento del Decameron che ha per sempre rotto l’immagine tradizionale del novellatore tematicamente e stilisticamente monotono e retorico (e ha impiantato, entro la salda immagine del Boccaccio poeta, la valutazione nuova dei temi tragico-passionali e del fondamentale tema della cortesia), o al commento del Giorno, in cui, in mezzo a sottili rilievi sulla tecnica e sul gusto del poemetto, si imposta il tema critico del decisivo rapporto del poeta con il mondo nobiliare che rappresenta tra fascino e satira; o ai commenti alfieriani, che, mentre impongono, magari per incidens, nuove valutazioni di grandi tragedie come l’Agamennone (e dunque portano veri e propri recuperi di poesia al nostro thesaurus poetico), avviano, con l’intuizione della forza morale dell’Alfieri, un’importantissima correzione alla tesi individualistico-titanica di origine crociana e una interpretazione piú complessa e piú vera della grande poesia alfieriana.

Certo la stessa ricchezza di sensibilità e di gusto spiegata nei commenti, l’urgenza di autenticità e immediatezza delle impressioni dirette (in una fase del resto in cui Momigliano portò all’estremo la sua volontà di «impressioni» tanto da qualificare anche i suoi articoli di questo periodo sui contemporanei «impressioni di un lettore contemporaneo», anche se ciò facendo intendeva poi sottolineare una certa sua personale e discutibile sfiducia nella sicurezza della critica sulla dimensione ancora aperta e fermentante di una letteratura in sviluppo), lo sforzo di far parlare la pagina commentata attraverso la collaborazione e la sollecitazione del critico che a ciò adibisce tutto il suo mondo di esperienza sentimentale e la sua personale tensione alla poesia e la sua adeguazione di linguaggio (fino alla gara talvolta eccessiva fra critico e poeta e a certa sopraffazione del testo spinto al di là di un piú sicuro argine storico e di un piú forte controllo sul problema critico), potevano non solo implicare alcuni limiti nella precisazione esegetica dei commenti stessi, ma anche un certo squilibrio nel rapporto interno delle forze del critico e una difficoltà per lui nel ritorno alla ricostruzione critica piú intera, al grande saggio monografico.

Ed infatti, mentre Momigliano non tornò piú al preciso tipo di monografia di personalità – come erano state quelle del Porta e del Manzoni – e si volse invece ad una ricostruzione piú diretta di un’opera, come avvenne nel ’28 col saggio sull’Orlando Furioso, in questo stesso saggio pur cosí bello, suggestivo e pieno di precisi temi critici (il tema di realtà e sogno che modernamente inverava una lunga linea critica che risale al Conti e al Foscolo; la forte postulazione e dimostrazione della nobile e gentile serietà del mondo sentimentale dell’Ariosto), si può avvertire una specie di compromesso fra saggio e commento. E, nella sua costruzione cosí libera e inventiva – e quasi arieggiante l’armonia libera dell’opera studiata –, si può sentire come eccessivo, anche se sempre stimolante in direzione critica, un certo abbandono esuberante del critico alla rievocazione e alla ricreazione del mondo poetico, si posson rilevare una maggior forza di totale interpretazione centrale e quasi un ripercuotersi nel nuovo saggio-commento di certe forme e di certi pericoli dei commenti, accentuati dalla natura della poesia ariostesca forse troppo intesa nella sua pittoricità e musicalità e quindi troppo sviluppata in coloriture di atmosfere visive e musicali, malgrado l’accertamento del mondo di sentimenti che le sottende, rivissuto anch’esso con qualche eccessivo romanticizzamento che accentua il distacco fra la superficie critica e quella piú sobria e concreta del testo poetico.

Sicché, a mio avviso, il frutto migliore dei commenti, entro una nuova maturazione e un ulteriore progresso della critica di Momigliano, è da verificare (come appoggio di concreta esperienza della poesia nella sua varietà tematica ed espressiva di tanti diversi testi poetici) piuttosto nella nuova fase di lavoro che si svolge (fino al ’38 circa: inizio delle persecuzioni razziali e di un temporaneo ristagno dell’attività dello studioso) in una circolarità feconda e in un intreccio armonico e duttile di prospettive collaboranti in una comune volontà e capacità sintetica. Quella della ricostruzione di tutta la nostra storia letteraria (appoggiata alla omogenea esplorazione generale dell’antologia per i licei), quella dei saggi critici di Studi di poesia (vera integrazione della stessa storia letteraria in una disposizione veloce e densa di giudizi e definizioni, di brevi, incisivi, e spesso decisivi, ritratti critici) e quella delle discussioni-recensioni di Elzeviri (pubblicati nel ’45, ma effettivamente scritti nell’epoca ricordata) che consolidavano, a nuovo livello di esperienza e di meditazione, alcune costanti della sua prospettiva critica in confronto con quelle dei suoi compagni di lavoro e le sviluppavano in una nuova interessantissima presa di coscienza (se non potrà dirsi di un metodo che si possa estrarre e proporre vigoroso e teoricamente originale) dei compiti della critica e soprattutto della convinzione della centralità della poesia (e del valore di questa, distinto e pur connesso con la personalità dei suoi creatori) negli studi letterari. Fondamentale convinzione e difesa contro ritorni di forme erudite di metodo storico (riconosciuto tanto meglio nei suoi grandi meriti e nella sua eredità, ma anche energicamente giudicato nella sua «insaziabile curiosità dei fatti che portava – e può portare – a dimenticare la poesia, l’arte, la personalità dell’artista»), contro gli eccessi di nuove forme di contenutismo e biografismo, o viceversa del formulismo e problemismo, dell’interpretazione musicalistica o ermetizzante, in una ricca e sottile sfaccettatura di polemica – poi cosí signorile e consapevole della complessità della tensione critica – che porta al centro (e ben in accordo con l’attività diretta di questo periodo ed anche con impliciti motivi di autocritica) una fiducia robusta nella risolutività dell’atto critico concreto, irrealizzabile dove manchi, in chi lo vuole esercitare, la profonda e assidua conoscenza diretta dei testi poetici, la chiara destinazione della piú vasta preparazione tecnica e storica alla migliore penetrazione dell’arte, una autentica passione per l’arte e l’esperienza della vita e della fantasia.

Qualità queste che egli ritrovava sovrane soprattutto nel De Sanctis «rivelatore perenne di poesia» (come egli lo dice) e cosí esemplare per lui nel concepimento della sua storia della letteratura italiana.

Potrà sembrare assai azzardato e erroneamente apologetico richiamare il nome di De Sanctis per la storia letteraria di Momigliano e l’accostamento potrà sembrar piú adatto a far risaltare la minor forza storica e la minor densità di succhi filosofici, etico-politici, il minor vigore e senso dialettico del nuovo storiografo. Eppure, ammesse certe carenze di questo che sarebbe sciocco celare, è innegabile comunque la forte presenza dell’esempio e dello stimolo desanctisiano (che anzi a volte, quando il suo schema venne piú direttamente seguito da Momigliano, fu causa non ultima di certe eccessive accentuazioni moralistiche a lor volta spesso parzialmente riscattate da un senso concreto di realtà artistiche) come sono innegabili la volontà e la disposizione di Momigliano, seppure nella storia prevalente del gusto, a sentire e far valere un giudizio estetico, ma anche storico, e, nella ricostruzione del passato, un orientamento storico che implica giudizio morale e vivo senso dei rapporti fra letteratura e civiltà.

Né si potrebbe ridurre (a parte la ricchezza concreta di giudizi e definizioni critiche particolari) quella storia solo al bel libro, al grande saggio interamente scritto, originalissimo e punto scolastico nel suo taglio generale, nell’inventività e varietà delle sue linee folte e diverse, nella novità di impostazione dei ritratti e dei quadri mai livellati e formulistici. Ché queste stesse caratteristiche derivano intimamente dal modo con cui il critico ha rivissuto la complessità individuale e storica della sua materia, interpretandola, giudicandola, disponendola in nuovi nessi e rapporti, in una trama continua e varia di climi spirituali, morali, artistici, non isolando mai i grandi poeti e, pur puntando sul valore poetico, avvertendo sempre la sua nascita nella personalità e nella cultura e la sua capacità di fondare non solo tradizioni letterarie, ma nuovi modi di cultura, di costume sentimentale, di tensione morale (il caso del Foscolo e dei Sepolcri fatti centro vitale di un’epoca artistica e spirituale). Sicché poi ne risultano concrete offerte di nuove articolazioni di epoche o rapidamente abbozzate (il caso del secondo Cinquecento che viene configurato nuovamente come un’età – l’età del Tasso – e di cui, pur nella sua funzione di passaggio al Seicento, si avverte la singolare ricchezza e la maggiore autenticità di tormento interiore e di poesia rispetto allo sviluppo barocco) o ampiamente delineate, come avviene nel quadro folto e complesso del decadentismo cosí ben incentrato nei suoi protagonisti: Pascoli, D’Annunzio, Fogazzaro, ma anche cosí storicamente compreso nelle sue componenti di misticismo e spiritualismo, nella sua tensione ad un’arte piú raffinata e tormentata di quella veristica, e insieme nella sua flessione di piú salda moralità, nella sua evasione dalla storia e dalla socialità, nella sua debolezza di costruzione intellettuale.

E, pur nella constatazione – inevitabile del resto in un’opera di cosí vasto respiro – di parti meno preparate e meno congenialmente sentite (come soprattutto la parte sulla letteratura contemporanea troppo interpretata sul metro alto della grande arte del passato e meno compresa nelle sue poetiche: donde poi – seppur con varie eccezioni come quella ricordata per Cecchi – certe cadute per ragioni tematiche astratte in note ipervalutazioni di scrittori di ben scarsa validità), la sostanza critica e storiografica di questo libro vien ben misurata ogni volta che ad esso si torna per singole verifiche e si è costretti (anche se non si volesse) a riconoscervi l’autenticità di una ricostruzione di prima mano, il rinnovamento di tanti problemi critici anche in casi minimi, e la singolare capacità di comprensione e di valorizzazione di tanti scrittori che contemporaneamente il Croce, con intransigenza non sempre giustificata, riduceva a «letteratura» e che la nostra successiva coscienza critica ha piú spesso riconosciuto nella giusta identificazione momiglianesca di «poesia»: e valga il caso di Parini, di Goldoni, dello stesso Metastasio di cui Momigliano sapeva ben cogliere l’autenticità del tono melodrammatico («maniera», come egli dice, «in lui originale di sentimento e di lirica»).

Un contributo fondamentale per noi, e per lo stesso critico una grande esperienza da cui egli ritrae un’ancora accresciuta capacità interpretativa, avvalorata da un’aumentata disposizione storiografica ben evidente nei saggi del suo ultimo periodo. Come quelli raccolti nel volumetto del ’45 (Cinque saggi) di cui basterà, da questo punto di vista, ricordare il saggio su Gusto neoclassico e poesia neoclassica che ben manifesta la sua capacità di far insieme critica e storia letteraria (sempre piú unite in lui, anche se mai assolutamente separabili né in lui né in altri che siano veri critici e veri storici della letteratura) recuperando, in una prospettiva in lui sempre assai viva, il rapporto non meccanico delle varie arti e specie fra letteratura e arti figurative, gli stimoli del noto libro del Praz in una finissima storia critica delle poetiche neoclassiche settecentesche nella loro tendenza al figurativo e graduando cosí (con effettivo contributo di avvicinamento critico e di impostazione di un nesso storiografico) fasi e sviluppi di tutta una lunga e ampia zona settecentesca sino alla geniale versione neoclassica del Foscolo. Che era un modo di fare storia ben recuperabile poi entro piú vaste e impegnative raffigurazioni storiche, tanto piú che nella considerazione del gusto non mancavano agganci ben precisi ad altri aspetti di cultura, di modi di vita e di società avvertiti attraverso la prevalente individuazione della linea del gusto.

Mentre poi l’esercizio storiografico-critico e la vasta esperienza della vita multiforme della poesia (percepita anche nelle voci minori e minime, nelle tensioni insufficienti e parziali) sollecitano e motivano per interna dinamica il risalire ad una nuova volontà di commento applicato solo alla grande poesia, ai massimi capolavori della nostra letteratura, alle grandi opere poematiche: Liberata, Commedia, Promessi Sposi (un commento al Furioso progettato, ma interrotto ai suoi inizi dalla morte, era poi in fondo scontato nel saggio-commento del ’28). Quasi che Momigliano abbia voluto cosí concludere, in un supremo confronto della propria forza critica solo con la grande poesia (e proprio con la grande poesia nella sua realtà poematica, nella sua realtà antiframmentaria; valore tanto piú grande quanto piú forte è stata la sua implicazione di pensiero e di cultura, costruzione come prova congiunta di forza fantastica intellettuale e morale), la sua storia di critico di poesia e la sua storia di uomo vissuto per la poesia. Tanto che la sua stessa vita, discesa verso la morte fra le sventure, si illumina per noi di una sua severa e serena felicità, di un suo sigillo di conclusione e di armonia pienamente realizzata: egli attuò interamente la sua esperienza, si espresse e si identificò totalmente nella sua opera.

Gli ultimi commenti sono accomunati da questa ansia di interpretare integralmente la grande poesia e questa vi viene minutamente indagata in ogni suo aspetto tematico ed espressivo, con una fortissima, cresciuta attenzione alle forme e alle ragioni interne ed artistiche della sua costruzione poematica. Attenzione con cui Momigliano sembra una volta di piú collaborare, pur nei suoi modi personalissimi, a nuove istanze generali e a un movimento della critica dalla sua fase di ricerca dell’acme poetica pura a quella di una nuova valutazione della complessità dell’opera d’arte e ai suoi aspetti strutturali e non perciò impoetici. E la grande poesia vi viene anche individuata attraverso una singolarissima applicazione della storia letteraria al commento: assiduo confronto fra i modi con cui la poesia si manifesta nei grandi poeti, attenzione al farsi e affermarsi della poesia entro piú generali tensioni poetiche e alla sua forza di instaurazione e sollecitazione di nuove tensioni poetiche. Come si può vedere soprattutto nel commento alla Liberata, dove le acute indicazioni delle offerte tassesche al Seicento e al «travisamento iperbolico» da parte di questo degli elementi del «magnifico» del poema, e quelle delle offerte piú genuine ed omogenee dell’elemento patetico-elegiaco-musicale alla nascita del melodramma e alla ripresa metastasiana, implicano interessantissime aperture di nuovi nessi storico-letterari (validi al di là del commento) e riportano luce sulla poesia del Tasso e sulla complessità interna di motivi e di linee tensive.

Mentre la grande poesia è poi anche rivissuta nel suo farsi interno, nella sua forza centrale e nelle sue flessioni, attraverso una specie di singolare prestazione del critico che indaga ed evidenzia anche la potenziale ricchezza di intuizioni non interamente svolte: che è atteggiamento già presente altrove nel Momigliano, ma che ora opera, piú che come gara fra critico e poeta, come ulteriore modo di impossessamento da parte del critico della ispirazione del poeta e della sua complessa e tormentosa estrinsecazione espressiva.

E se nel commento dantesco possono pur trovarsi residui di disposizioni piú suggestive ed evocative sugli orli del testo (che il lettore avveduto e non prevenuto sa poi ben considerare come il margine esterno di una cosí forte interpretazione personale della poesia dantesca), i suoi contributi sono fondamentali e portano un continuo stimolo critico di indicazioni di temi, di valutazioni nuove di episodi e personaggi, implicano un ricchissimo recupero del valore artistico di figure e simboli nella loro realtà poetica, del valore artistico delle unità dei canti e della continuità narrativa e architettonica del poema.

Ciò che può ripetersi per il commento ultimo ai Promessi Sposi, che è forse poi il piú libero anche da certi rischi che, del testo, sembrano essere stati sempre ovviati sulla linea di una sicura e adiuvante congenialità fra le costanti piú profonde del mondo del critico e dei suoi ideali artistici e quelle della personalità e dell’arte manzoniana. Commento in cui si spinge al massimo la coerenza fra osservazioni puntuali e rilievo di linee morali-architettoniche del romanzo e si realizza la maggior concordanza fra le sollecitazioni critiche delle piú violente e drammatiche profondità del testo e la coscienza del loro riassorbimento entro la linea severa e serena della fantasia e dell’arte del Manzoni.

E basterebbe, a capir tutta l’estrema capacità di penetrazione e di valutazione critica del Momigliano, ricordare la sintomatica individuazione di una pagina eccezionalmente inquietante e lucida, eccezionalmente profonda e fantasticamente drammatica del romanzo (il finale della storia di Gertrude e il configurarsi del suo rimorso per la soppressione dell’imprudente conversa in una forma «vana, terribile, impassibile», nel «susurro instancabile» di una voce segreta che assediano la sua coscienza e la sua sensibilità) e i modi con cui quell’identificazione di singolare profondità viene dal critico riportata, nella sua realtà artistica, entro i modi supremi dell’arte manzoniana: «Nel resto di questo capoverso la voce del Manzoni ha un suono che non ebbe mai: qui in una formidabile eccezione tocca il cerchio dei fantasmi che vengono su dalla coscienza turbata, ma senza nulla concedere ai giuochi della fantasia, proiettando quell’ombra ben definita sopra il solito nitido schermo».

Dove di colpo la figura del critico si ricompone intera in tutto il suo significato, in tutto il risultato della sua lunga vicenda di educazione e di forza nativa, entro le forme piú sicure e salde del suo modo critico di identificazione, descrizione, interpretazione e giudizio della realtà poetica.

Di questa sua storia ho qui cercato di indicare le fasi e il movimento fecondo, il rapporto fra esigenze interne e i modi concreti con cui Momigliano visse esigenze della sua epoca e collaborò originalmente allo svolgimento della critica novecentesca in cui la sua presenza è certo una delle piú decisive, una delle piú dotate di larghissimo respiro critico, di forme originalissime di intervento, di elaborazione di temi critici, di realizzazione della fondamentale ispirazione critica della sua epoca (monografia e storia della personalità, commento, saggio-commento, storia letteraria) con una libertà e inventività di esercizio critico che piú richiama, fra i suoi vicini, la critica di Cecchi, con una nitidezza e misura e concretezza che richiama quella del suo amico Pancrazi.

E, al centro della sua vastissima disponibilità di mezzi e modi interpretativi, una forza critica che si realizza, ma non si identifica totalmente nelle varie forme della sua attività e del suo svolgimento. Perciò appaiono insufficienti a definire questa complessa e grande personalità critica le formule piú volte proposte: critica impressionistica, critica estetico-psicologica, descrizione di poesia, interpretazione tonale, critica di saggista-scrittore. Definizioni che pur possono parzialmente cogliere alcuni aspetti del suo fare critico (e da rivedere comunque per ciò che quegli aspetti significarono in varie fasi del suo svolgimento), ma che finiscono, isolatamente prese, per smussare quella sua forza centrale piú profonda, che non può scambiarsi, ripeto, con le particolari forme in cui si attuò, legate a situazioni di cultura e di gusto diverse da quelle entro cui altri critici hanno operato ed operano, e finiscono per ridurre l’incisività della sua eredità e della sua lezione che non possono risolversi solo nel patrimonio imponente di giudizi, di temi e spunti che egli ci ha lasciato, patrimonio che pur costituisce ciò che piú resta di un critico vero quando le particolari ragioni metodologiche e le particolari condizioni storiche, che quei giudizi e temi sostennero, siano cadute e consumate entro nuovi sviluppi della critica e della metodologia.

Questa eredità, questa lezione per chi eserciti la critica, mi sembra di poter riconoscere (naturalmente non solo di Momigliano, ma certo fortemente sua) nel vivo richiamo, implicito in tutta la linea rossa del suo svolgimento, alla centralità della critica negli studi storico-letterari e all’energica destinazione critica di ogni mezzo euristico, di ogni strumento di ricerca, di ogni forma di preparazione filologica, linguistica, storica, che possono presentarsi come necessaria risposta a nuove esigenze dello studio letterario.

Noi tutti, attivi in questa stagione critica, viviamo certo forti e complesse esigenze (di varia sostanza e tendenza e in un’apertissima discussione) di piú sicuro accertamento tecnico e di piú robusta storicizzazione nell’interpretazione e nella ricostruzione dei fatti artistici (storicità letteraria, storicità linguistica, storicità delle poetiche, storicità dell’arte nei suoi nessi con le dimensioni sociali e culturali della storia). E non importa dire qui con quante diversità e con quante implicazioni diverse ideologiche e metodologiche, ma certo con una comune urgenza non rinnegabile di ulteriore precisazione e approfondimento del nostro lavoro.

Ma ciò facendo siamo pur ben esposti a tentazioni e pericoli, configurabili in precise tendenze dello studio letterario contemporaneo, e pur variamente possibili in tutti noi. Quando siamo portati a scambiare i mezzi con i fini del nostro lavoro, la preparazione strumentale con i compiti centrali dell’operazione critica, quando ci lasciamo sopraffare dal materiale preparatorio e dimentichiamo che il nostro dovere è di farlo servire ad una migliore illuminazione e valutazione dell’arte, quando siamo portati a credere che la tecnica e la metodologia possano vivere e servire senza il gusto personale e l’esercizio e l’impegno critico diretto, o dimentichiamo che, se la poesia va fatta vivere nella storia, essa non deve essere in quella sommersa e dispersa o ridotta a semplice nuova edizione di valori già correnti in altri campi di esperienza (col che si priva poi la stessa storia di una delle sue forze autentiche e per cui essa è storia), o viceversa siamo tentati a ridur la poesia a calcolo e a puro prodotto letterario e tecnico, rappresentabile quindi in diagrammi livellatori e impersonali ed astorici, o a svuotarla delle sue ragioni umane e morali, del suo intrinseco rapporto con la personalità del poeta.

A queste tentazioni l’opera di Momigliano implica una ferma risposta: egli visse ed esercitò, in forme storiche e personali particolari e concrete, un profondo senso di centralità e integralità della poesia e della critica, sentí, dichiarò e attuò la dignità e l’originalità della critica sostenendola con la sua impareggiabile vocazione, con la ricchezza della sua sensibilità e del suo gusto, con la sua genuina passione per l’arte, con il suo coraggio schietto e persuaso, con tutta intera la sua vita nobile e complessa.

Per questo fu ed è un maestro di critica, per questo oggi lo ricordiamo con gratitudine e ammirazione, noi suoi scolari e compagni di lavoro critico e di fede nel lavoro critico e nelle sue ragioni vitali, per questo oggi lo commemorano questa università e questa facoltà che lo ebbero, e lo riconoscono, fra i piú alti maestri che l’abbiano mai onorata con l’insegnamento, l’attività scientifica e la vita morale.